Cala il sipario sulla XVII legislatura. Seguiranno applausi della platea ? Fischi dai loggioni? Difficilmente ci sarà la richiesta di un bis. L’attività del Parlamento che se ne va è percepita, spesso a torto, come qualcosa di insufficiente o di quasi inutile. E ci si augura sempre che le prossime Camere siano migliori, più fattive e concrete. L’auspicio è sacrosanto, ma non deve far dimenticare quello che comunque è stato fatto nella legislatura che finisce.
Certo ci sono stati dei tentativi che non hanno dato risultati attesi. La grande riforma costituzionale è stata bocciata dal referendum che, nelle intenzioni dei promotori e del Governo, avrebbe dovuto consacrarla in maniera plebiscitaria. La legge elettorale, dopo mille peripezie, è stata approvata in extremis in una forma che, a detta di tutti, non garantirà facilmente la formazione di una maggioranza.
Altre riforme, per fortuna, sono andate a buon fine: un mercato del lavoro più flessibile, una scuola meno inefficiente, un processo civile più snello e rapido, un po’ di fardelli fiscali in meno sulle imprese, alleggerimenti di tasse sulla prima casa e nel settore agroalimentare, norme più rigide sui reati ambientali, legge contro il caporalato, interventi per rafforzare la lotta alla corruzione, la riforma del cinema, dell’audiovisivo e del terzo settore, della pubblica amministrazione e le misure per combattere la povertà mediante il reddito di inclusione.
Molti interventi sono stati fatti sul terreno dei diritti: unioni civili, divorzio breve, norme per la non autosufficienza, riforma delle carceri, disposizione anticipata di trattamento, il reato di tortura, nuove misure più realistiche sui migranti e l’accoglienza, le nuove norme sulla legittima difesa e l’uso della cannabis per uso terapeutico.
Purtroppo però tre governi con maggioranza diverse in cinque anni sono troppi e questa perdurante mortalità precoce dei governi certo non aiuta, soprattutto in un periodo caratterizzato da problemi strutturali che rendono il sistema Italia ancora poco competitivo e scarsamente efficiente mentre pesa come un macigno l’enorme debito pubblico sia in valore assoluto che in rapporto al PIL.
Ma, guardando a come eravamo 5 anni fa e come siamo adesso, possiamo dire che le cose vanno meglio. I fondamentali dell’economia- a parte il debito- sono positivi: c’è una ripresa, le imprese falcidiate da una tremenda crisi durata un decennio stanno ritrovando vigore e hanno ricominciato a produrre e ad esportare a ritmi notevoli, ci sono più occupati, il sistema creditizio ha retto discretamente alle tempeste e le sofferenze bancarie cominciano a calare. Forse si sarebbe potuto fare meglio?
Ad ogni modo due cose sono mancate: una profonda revisione e riqualificazione della spesa pubblica e una visione d’insieme sulle prospettive di sviluppo dell’Italia che è ancora priva di una vera e propria politica industriale. I governi di Letta, Renzi e Gentiloni hanno partorito una serie di decreti- legge per il rilancio economico a volte dai nomi più o meno suggestivi – Destinazione Italia, decreto Competitività – contenenti molte misure episodiche e non strutturali.
Questa è, forse, la più grande lacuna che la XVII legislatura e i suoi tre governi (in modo non molto diverso da quelli che li avevano preceduti, a onor del vero) lasciano in eredità.
Un Paese moderno che è il secondo in Europa nel settore manifatturiero non può vivere alla giornata e ha bisogno di grandi strategie che devono vedere nel Governo un regista abile che mette le imprese italiane in condizioni di poter competere nell’ottica di un gioco di squadra. In assenza di questo gioco di squadra nulla è possibile e l’Italia rischia di perdere altri gioielli di famiglia o quote di mercato a beneficio di altre economie che invece questo gioco lo sanno impostare e guidare.
L’auspicio migliore che si può formulare alla fine di questi cinque anni è proprio questo: l’Italia ha enormi risorse imprenditoriali, tecniche, professionali e umane; deve metterle a sistema liberando le energie dai pesi di inefficienze strutturali, non solo del settore pubblico, e alleggerendole da un carico fiscale che è ancora elevato. Ma tutto questo non può bastare se ci si muove senza una bussola che indichi dove si vuole e si deve andare. E questa bussola è una politica industriale moderna, innovativa, coraggiosa che faccia ritrovare all’imprenditoria italiana –sia nella manifattura che nei servizi – lo spirito che segnò il grande miracolo economico degli anni sessanta.
Certo, può sembrare azzardato formulare questi auspici alla vigilia di una campagna elettorale difficile, caratterizzata dalla diffusa certezza che dopo il voto sarà piuttosto arduo costruire in Parlamento una maggioranza coesa. Lo spettro dell’instabilità politica è ciò che spaventa i mercati, preoccupa le famiglie, toglie certezze alle imprese e aumenta i costi del finanziamento del debito pubblico. Speriamo che non sia così. Ma chiunque sarà chiamato a governare l’Italia è con questa visione che dovrebbe misurarsi .